mercoledì 22 aprile 2020

I tempi del coronavirus ai tempi del "ai tempi del Coronavirus"




Ah, da quando Baggio non gioca più, non è più domenica.
Da quando Senna non corre più, o ancora meglio, da quando la Tramec non gioca più, non è più domenica.
La domenica va ricercata in cose diverse, come il programma della Rebe su Radio Nebbia. Che poi mi perdo perché lavoravo. Che cerco in differita. Non trovo. Poi trovo. E comunque devo ancora ascoltare.

Una volta la domenica era il caffè, la grappa, Netflix, il silenzio assoluto.
O la felpona nera di BBox, lo zaino, la macchina, l'A14, la Benedetto.

Adesso la domenica te la devi costruire tu sennò non c'è, sennò non c'è niente.

Bevo il caffè, vado sul balcone, guardo lontano per tenere allenato l'occhio sennò la miopia peggiora. Me ne sono già accorto in uno dei miei pochi tragitti in auto.
Guardo lontano, la visuale è coperta dalle fronde degli alberi in primavera, riesco ad intravedere quello che penso sia un appartamento di polacchi.
Oltre al mio.
Cioè so che è in quel condominio c'è una famiglia polacca, l'altro giorno buttando il vetro mi è parso di sentire qualcosa di simile ad una disco-polo sparata a busso alle 18.00 (alla faccia dei vostri flash mob con Cutugno).
Se c'è, cerco di prendere il sole.
Mi correggo: di espormi al sole, così, giusto per, metti che mi faccia bene alla salute. Tanto non mi abbronzo, mai. Certe cose non cambiano.

Poi preparo una puntata radio. Una delle ultime. Troppo casino sulla scrivania, troppo poco tempo, troppa poca preparazione, troppo pochi gli ascolti, e troppa poca la voglia.
La verità è che sto ancora lavorando normalmente, quindi anche nel weekend, a volte anche alla sera, come prima del coronavirus.

Metto insieme tante canzoni, le spiego, parlo di Londra, di quello che ha significato per me, con aneddoti, racconti. Un punto di vista diverso.
Riascolto quelle canzoni e sono passati quasi 10 anni, e mi riguardo un po' con quello sguardo da "Il crollo del santo" di Dino Buzzati.
E mi chiedo io quale santo sia.
Il tempo ci consegna i ricordi in una maniera filtrata, quasi distillata, diventa sempre tutto un po' più bello, come se ci fosse sopra un filtro seppia di Instagram a fare un effetto vintage del tipo "si stava meglio quando si stava peggio".
L'altro aspetto che emerge è che sicuramente ho fatto quello che volevo, con risultati certamente opinabili, ma comunque "facendo le cose".

Sta passando "Use Somebody" dei Kings of Leon, quel pezzo dove le tipe londinesi, quelle che prendevano quasi 2mila pound a differenza dei mille miei (ottenuti con oltre 40 ore settimanali), quelle tipe di età 25-35, con una buona percentuale inglesi, che quasi sempre poi si accompagnavano a quelli vestiti con la camicia bianca e la cravatta slacciata nello zainetto del lavoro (o comunque "professionals") cantavano a squarciagola la canzone, dopo almeno un paio di birre e un paio di shottini.

Quando la serata saliva, per loro come per me, in un binario parallelo che ci vedono semplicemente condividere lo scenario situato nella Central London.
Quando avevo ancora tutti i capelli del mio colore (a parte quattro capelli bianchi, e sapevo esattamente dove erano). Quando pesavo meno di 60 chili. Quando portavo la S. Ed ero nei vent'anni, per quel che vuol dire. Cosa vuoi che siano.

Ecco, finisce quel pezzo e cade la diretta radio. E allora tutto finisce lì. Non c'è tempo per passare Closing Time dei Semisonic, che invece è il brano del "ragazzi la campanella è già suonata, l'ultima birra l'avete già ordinata, adesso è tempo di uscire e levarvi dal cazzo che siamo stanchi e abbiamo voglia di smettere di lavorare anche noi".

Cade la diretta radio per una storia di diritti di copyright, annoso problema del web sul quale non voglio stare a disquisire.
Da un lato è vero che le cose non devono essere tutte gratis, dall'altro va detto che ci vuole il giusto prezzo e la giusta modalità di fruizione.
Non giustifico criminalità e pirateria: ma dico che la criminalità e la pirateria nascono sempre dove ci sono piccole e grandi ingiustizie.
E prevenire è sempre meglio che curare.

Allora finisce tutto, e allora stacco il mixer, stacco il microfono, stacco i cavi, stacco questo scenario di caos che calendario alla mano mi ha tenuto compagnia proprio per quaranta giorni, come quelli di Gesù nel deserto, come quelli che una volta si facevano fare agli appestati, e che adesso sono stati ridotti a 15 giorni. Per chi li fa veramente.
Noi la chiamiamo quarantena ma in realtà quarantena vera non è.
E durerà comunque più di quaranta giorni.
Io praticamente sono già a due mesi, ad esempio.

Mettere via queste cose mi ricorda un po' la fine delle vacanze, quando si rifà la valigia per tornare a casa il giorno. E' sempre un po' triste e un po' malinconico. Anche questo periodo ha delle cose belle che finiranno.
Ma anche dalle vacanze più belle c'è sempre un minimo di voglia di tornare, di tornare alla normalità. Quando capisci che è finita, allora vuoi tornare.

Ecco, ora la sensazione diventa questa, in questa personalissima fase due.
Tornare a cosa? Tornare a casa?

Non sarà la stessa cosa, no. Non sarà la stessa casa.

Ma comunque in qualche modo ce la faremo, ci sarà un nuovo equilibrio, difficile, che creeremo. La vita è fatta di rischi, e comunque prima o poi si muore.
Dobbiamo, come abbiamo sempre fatto, trovare i migliori compromessi per tenere un rischio basso, e accettabile.

E allora, sì, in un modo o nell'altro, ce la faremo.


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