martedì 16 aprile 2024

Quaranta sono troppi - Aspettative e disillusioni da un mercato di riparazione


Milano, gennaio 1998.

Paulo Manuel Carvalho de Sousa, noto ai più semplicemente come Paulo Sousa, è un calciatore portoghese in cerca di riscatto.
27 anni, centrocampista, presenza fissa della nazionale del suo paese (con la quale ha disputato la fase finale del mitologico Euro '96 in Inghilterra), con la quale si è laureato campione del mondo under-20 nel 1989.
A livello di club ha già conquistato 10 trofei, tra cui due Champions League consecutive (con la Juventus nel 1996 e l'anno successivo con il Borussia Dortmund) e un scudetto (sempre con la Juve, nel 94/95).
Il biennio a Torino lo ha consacrato tra i migliori mediani della scena internazionale, anche se soffre spesso di problemi alle ginocchia, che ne stanno condizionando sempre di più il rendimento.

Il suo arrivo a Milano, sponda Inter, nel gennaio 1998, rappresenta per lui una nuova sfida: con il suo ritorno nello stivale punta allo Scudetto (che manca ai nerazzurri da 9 anni).
Il suo manager è lo stesso di Ronaldo (il Fenomeno, quello vero) e questo gli ha dato modo di parlare con lui e farsi convincere.
C’era il migliore al mondo in quel momento, ovvero Ronaldo. Loro condividevano la mia mentalità, perché volevano vincere tutte le partite avrà modo di dire diversi anni dopo.

In effetti l'Inter è in corsa anche per la Coppa Uefa: ma Paulo Sousa, avendo già giocato in Champions League per il Borussia, non può entrare nelle liste Uefa dei nerazzurri.

L'Inter, guidata da Mister Simoni, ha avviato da pochi anni il grande periodo morattiano: acquisti di giocatori a spron battuto, tra grandiosi intuizioni (Roberto Carlos, Javier Zanetti, Ivan Zamorano, Djorkaeff, Recoba, Simeone) e clamorosi bidoni (Rambert, Caio, Sforza) ed inspiegabili cessioni (quella di Robert Carlos su tutte). L'acquisto senza dubbio più importante è però quello di Luiz Nazario da Lima, detto Ronaldo, poi noto come "il Fenomeno".
Dopo un paio di annate incolori, la stagione 97-98 sembra quella buona, e guidata da Ronaldo, appunto, l'Inter sogna di riportare sulla maglia lo scudetto che manca ormai da 10 anni.

Il mercato di riparazione è sostanzioso, proprio in vista di una seconda parte di stagione dove l'Inter vuole lottare su tre fronti (anche se a gennaio uscirà malamente ai quarti della Coppa Italia contro i cugini del Milan, che rifileranno un sonorissimo 5-0 già all'andata).
Escono Massimo Tarantino, Nicolino Berti, Massimo Paganin, Branca e Ganz: arrivano Colonnese, Martin Rivas, Mauro Milanese e lui, Paulo Sousa.

Da poche stagioni l'Italia, così come il resto d'Europa, si è adeguata alla numerazione fissa sulle maglie, con tanto di nome, e le società ancora bene o male assegnano i numeri preferendo la scelta dei numeri al di sotto del 30. Numeri che, ancora, non sono sostituibili (come invece accade oggi).
Ad esempio, il numero 3 di Tarantino, anche se mai utilizzato in campionato, al momento della sua partenza per Bologna non può essere utilizzato dal nuovo arrivato Colonnese, che opta per il 33.

Appena due anni prima il Bel Paese aveva commentato con disappunto il numero 30 di Vieira, arrivato a gennaio al Milan, e quando Paulo Sousa è costretto a scegliere il numero 40, scoppia il finimondo.
40.
Quaranta.


Siamo a gennaio, e l'Inter ha già avuto in rosa 40 giocatori. In campo ne vanno 11: vero è che la panchina da questa stagione è salita a 7, ma al netto delle cessioni, ne resta sempre almeno il doppio in tribuna.

Questo porterà ad una innumerevole serie di gag e battute, che si protrarranno per anni, anche a causa del proseguirsi di insuccessi sulla sponda nerazzurra di Milano.
Ad esempio, gli interisti Ficarra e Picone costruiranno proprio uno sketch sulla famosa "panchina lunga".


Come va a finire questa storia? Il big match tra Inter e Juve, lo scontro di Ronaldo contro Iuliano, il rigore che c'era e che non c'era, la Juve che vince lo scudetto, l'Inter che (senza Paulo Sousa) vince la Coppa Uefa.
Il nostro portoghese resterà poi a Milano per un'altra stagione e mezza, cominciando la sua parabola discendente, senza più nessun trofeo, e tra infortuni e problemi fisici vari sarà costretto al ritiro a soli 32 anni, dopo essere passato anche dal Parma (in piena epoca Tanzi).

Oggi Paulo Sousa è un allenatore, e in ordine sparso, è tornato in Italia con esperienze non molto convincenti con Fiorentina e Salernitana, ha guidato la nazionale polacca ad Euro 2020, il Flamengo, e vinto due campionati (quello svizzero con il Basilea e quello isrealiano con il Maccabi Haifa), oltre a due Supercoppe e una Coppa di Lega in Ungheria, con il Videoton.
Una onestissima carriera, anche se sicuramente ancora non all'altezza di quella che ha avuto in campo.

E ora che quel lungo capello castano si è accorciato, lasciando spazio ad un capello bianco con una acconciatura più simile all'odierno Ligabue, ci resta quest'ultimo momento di rilievo del Paulo Sousa calciatore.
Quando ancora quello Scudetto poteva essere interista.
Quando ancora Paulo poteva tornare sulla cresta dell'onda del calcio, calcandone i palcoscenici più prestigiosi, da protagonista.
Quando ancora si diceva che quaranta fossero troppi.

E invece.


lunedì 22 gennaio 2024

Sono tornato solo per controllare se avevo staccato il gas


Freddo, prevalentemente e principalmente freddo, nelle luci di chi non ha problemi con i limiti dei 30 km/h delle metropoli.

Mura e palazzi orfani delle parole di Vasco Brondi, in una provincia che cambia e non cambia, sempre pronta al lento ma progressivo ricambio generazionale dei bar.

Un passo alla volta, sui marciapiedi sconnessi, laddove i pedoni sono sempre l'ultimo pensiero di ogni cantiere e lavori in corso.

Una leggera ebrezza, quel senso di equilibrio di chi continua gioca a fare il Pippo Inzaghi con l'etilometro, perennemente sul filo del fuorigioco della patente.

Alla fine sei passato al Campari, giusto perché l'Aperol ti ha rotto il cazzo: c'è voluta una vita, ma ce l'hai fatta.

E un'altra Ford che passa, senza nessuna storia, senza nessuna possibilità di entrare mai nel registro delle auto storiche, col suo carico di seggiolini a norma.

Vorresti sbloccare il risultato - ora - ma sarebbe troppo presto. Le partite durano 90 minuti, e a volte anche 180, ma questo è un campionato difficile.

Non segneresti, non segnerai.

Alla fine, avevi ragione, alla fine non è nemmeno un brutto posto in cui vivere. C'è voluta una vita, ma l'hai capito: ce l'hai fatta.

E intanto i bar aprono e chiudono, le macchine passano, le lampadine si fulminano, i marciapiedi si sgretolano, davanti agli assessori comunali e alle tessere elettorali che si riempiono di timbri.

Anche Wilshere ha smesso di giocare, sembra siate rimasti solo tu, Fernando Alonso e Carlos Sainz (senior) a non volersi rassegnare al tempo che passa. Eppure non sei loro, né tantomeno il Kazu Miura, il tempo passa comunque e anche su di te lascia i suoi segni. Inesorabili.

Quanto - è lontana - la pace?

Quanta guerra - ancora - per chi non l'hai mai vissuta - davvero?