lunedì 7 settembre 2015

Robin Schulz (ma io non voglio ancora crederci)

La fine delle ferie, settembre, il ritorno al lavoro, la festa dei giovani di Pieve, l'asta del fantacalcio, la fiera di Cento, il termometro che cala, e il nuovo EP di Robin Schulz: tutto il mondo che mi circonda sembra volermi comunicare la fine dell'estate, ma io ancora non voglio crederci.

Credo ancora che possa arrivare di nuovo qualcosa, come Baggio all'88esimo, come Senna che recupera 1 secondo al giro sotto la pioggia, come Savoldelli giù per una discesa, come te che mi hai saputo portare dove neanche pensavo di poter voler finire. (eh? ma chi?)

Ma non succederà. L'estate sta finendo. Un anno se ne va. Sto diventando grande. Lo sai che non mi va. E se è per questo non mi va neanche l'EP di Robin Schulz. Fa veramente cagare.

E una volta settembre mi piaceva, sentivo quel fresco odore del sole sui campi di grano svuotati, quelle giornate sempre più corte ma comunque radiose, quella speranza.

Perché poi la verità è che noi il meglio l'abbiamo sempre dato tra settembre e maggio. Mica come Robin Schulz.

"Forse è la paura di perdere le emozioni dei sogni che spinge a tenere viva la speranza. Eh? Che cosa ho detto? O forse devo bere meno, scrivere meno cazzate e andare a letto prima la sera."

(Comunque Headlights mi è piaciuta un sacco.)








mercoledì 2 settembre 2015

Lacetti colpisce ancora - Alla ricerca del pezzo incantato

Non sopportavo come i ragazzi laggiù in Romagna avessero preso a chiamarmi Lacetti. Voglio dire, ero pronto a rottamare quel ferro arrugginito in cambio di una bionda ghiacciata, se solo fosse bastato a farmi chiamare con il mio cazzo di nome.

Ma era inutile, Aziz, Basano e Mapez amavano scherzare all'europea, e in quel genere di questioni era meglio non addentrarsi, se volevo evitarmi un pippone spezzapalle di 45 minuti. Volevo solo un cazzo di burrito caldo, ma in tasca non avevo spicci, né per la broda della Lacetti né per saldare il conto della serata.
I miei debiti si facevano troppo alti, e rischiavo di fare la fine della Grecia in un poker assassino con Berlino e Londra.

Decisi di stare seduto sul dondolo nella mia veranda a fumarmi un paio di paglini, mentre attendevo qualche idea sul da farsi.
Avevo un sacco di lavori da terminare qui, e l'indomani mi sarei svegliato presto per cominciare a terminarli, ma non riuscivo a schiodare la testa da quella topolina dell'est.

Cosa era successo? Mai mi era capitato di perdere la testa per un pezzo di carne, neanche fosse una fiorentina servita sotto al Mugello. Qui c'era qualcosa di più grosso sotto. Questa tipina nascondeva dei segreti, sotto quelle gemme che aveva al posto degli occhi, e iniziavo a esserne sicuro. Dovevo scoprire quale mistero si portava dietro. Quel fascino di eterna bambina innocente, mischiato al carattere della peggior stronza dell'ufficio postale, e alla freddezza di un killer in area di rigore. Ma aveva un tocco, un raggio di sole, una brezza tiepida, che a tratti, le uscita dalle labbra, dalle mani, dal cuore.

Dovevo andare a scoprirlo al più certo, ne ero sicuro. Cercai gli stivali antifango e li trovai ancora sporchi di fango, perfetti per immergermi nel fango fin da subito. Ma nel fango dovevo andarci domani.

Dovevo andare a prendere quella bimba. Ed ero sicuro ci sarebbero voluti almeno una decina di caricatori, 4 taniche di benzina, un bel giubbottone con l'interno ben foderato, e soprattutto un paio di stivali puliti.
Sarei partito l'indomani con le luci dell'alba, avrei fatto il pieno da Grisù (di soldi e di broda) e poi avrei schiacciato il gas di quel cesso mobile fino a farla bruciare dopo il confine.

Sentivo l'odore della rincorsa più lunga di tutto l'ovest civilizzato, ma sentivo anche il suo profumo tenue nell'aria, e sapevo che non sarei tornato da solo da questa cavalcata.
La luna piena mi sorrise sorniona, io la mandai a farsi inculare, e mi buttai sul dondolo, per dormire con il fresco della sera.

martedì 30 giugno 2015

Lacetti

Qualche tempo fa, nel vecchio continente...

Il sapore di caffè caldo mi correva ancora lungo le gengive, in una corsa infinita, come i fari della notte sulla A14.
Che poi non era vero caffè, lo sapevo, me lo aveva detto Lucia, una puttana italiana mi ero fatto in un viaggio a Milano, qualche anno fa.
Senza nemmeno pagarla.
Bah, laggiù, le studente universitarie fanno una sorta di tirocinio gratuito presso i cazzi a stelle e strisce, anche se a quanto pare prediligono quelli del sudamerica.
Ma non mi interessava più di tanto, non volevo farmi distogliere dal pensiero di quelle gambe, ancora fresco nella mia mente, di un colore perfettamente a metà tra l'ebano e l'avorio, che si contorcevano calde e sudate in un vestito nero apparentemente un po' troppo corto.
Avrei avuto voglia di interrompere ogni scialba conversazione e mostrare un po' del materiale che mi porto sempre appresso, ma a quanto pare c'era una procedura da rispettare, e le mie maniere sarebbero risultate una eccezione non consentita dal sistema.
Ho qualche dubbio sulla sanzione che mi sarebbe stata commissionata, ma decisi di non forzare la situazione, e lasciare che le mie attenzioni si dirigessero temporaneamente sulla destra, dove in un lungo tessuto si contorcevano un'anima bisognosa di punizioni.
Non mi sarei sottratto al mio dovere, ma prima, avrei bagnato le labbra in un paio di bicchieri, come si conviene ad un uomo che ha sete per davvero.

Prima di tutto questo, avrei dovuto affrontare "the white runner", così lo chiamavano. Non mi interessava l'origine di quel nomignolo, conoscevo bene il mio avversario. E sapevo che con lui era come una partita a scacchi: ti avrebbe portato dove voleva, per poi sconfiggerti. Riuscii a uscirne vivo, ma non certo vincitore, e mi allontanai con le luci della sera, sulla mia Chevy rossa.

Le valvole urlavano come dannate sotto quel cofano bollente, a rammentarmi che non poggiavo il culo sul sedile di una muscle car, ma sul deprecabile telaio di una Lacetti, rimediata chissà dove dopo un lavoro a Piacenza.
Ricordo bene quella notte e quello che mi portò a recuperare questo volante, giurai sotto una bottiglia di JD che non ne avrei mai parlato, e per la buonanima di Josh Beneguzzi, non lo farò certo ora.

Le luci della cispadana mi correvano sulla fronte, a ricordarmi gli anni che passavano e le radure che si aprivano tra i miei capelli, mentre l'umido della grande pianura bussava dai finestrini per entrarmi fin dentro le mutande.
Scesi lungo la strada a mangiare un boccone, e trovai riparo alla tavola calda di Aziz, Basano e Mapez, tre giovani del posto.
Li conoscevo bene, li avevo salvati in più di una occasione dalle calde notti di Cuba, ma forse erano stati più loro a salvare me. Mi fermavo volentieri a scucirgli qualche euro per il burrito più buono di tutta la statale, anche se con Aziz non ci dicevano molto altro che non fosse "scipola" o "picanto" o che so io.
E non ho mai capito se tutte le volte che mi diceva "bella macchina" mi stesse prendendo in giro o davvero apprezzasse quel vecchio ferro rosso prossimo alla ruggine. Sono stato indeciso più di una volta se sfoderare il mio fodero nascosto, ma nel dubbio, ho sempre preferito tenermi buono un acquirente nel caso necessitassi di liberarmi di un usato scomodo.

Basano e Mapez, invece, mi accolsero come sempre, con una pinta fredda e un cestino di pretzel che non centravano proprio un cazzo, ma sapevo che faceva parte del loro modo di avvicinarsi ad un americano di origine europea.
D'altronde, le loro origini italoamericane avrebbero fatto presagire un'accoglienza più localizzata, ma anni passati a rischiare l'osso del collo nelle atenei più rinominati del pianeta, avevano reso loro un miscela priva di senso di usanze e tradizioni.

Usciii sulla soglia, a respirare un filo di vento, a cercare di cogliere la brezza dell'estate che arriva, che fa mille promesse e che poi alla fine ti sodomizza a tradimento, proprio come feci io con Paulina, nonostante avessi tentato di utilizzare un po' di vaselina prima che mi scivolasse la confezione sul suo tappeto del discount.
Stavolta sarei stato io a prostrarmi al vento della vita, e sarei stato pronto a farlo... ma quei 1400 bigliettoni che mi aspettavano su a Manchester mi ringalluzzivano parecchio, e non avrei certo potuto fermarmi davanti a quella prospettiva.
Misi tutto sul conto di Basano (un vecchio gioco di scambi, quando alla cassa trovavo Basano ovviamente facevo mettere tutto sul conto di Mapez) e uscii, ebbro di Bavaria gassata all'inverosimile, respirando l'odore di GPL appena riempito, e pronto a perdermi nuovamente sui ponti ultimati di recente.

Sapevo che avevo un paio di gambe da conquistare di un colore perfettamente a metà tra l'ebano e l'avorio, e nessuno avrebbe potuto staccare la mia destra dal pedale del gas.


giovedì 11 giugno 2015

John Mayer


Alla fine neanche mi mancava troppo, questo blog.

Sono sempre più gli interventi che abortisco. E poi da quando ho ridotto sensibilmente le serate alcoliche infrasettimanali, ormai lo scrivere era solo delineato al fine di produrre, prima o poi un qualcosa di pubblicabile.

Poi oggi stavo sistemando delle cose al lavoro, in questa sala buia, con le luci accese, e ho ripensato a John Mayer.
O perlomeno, a quel senso di intimità di relazione di coppia, quello scoprirsi ancora acerbo, tutte quelle potenzialità... ascoltando John Mayer. Quanto John Mayer nella mia vita.
(Quanto, appunto? E quanto vero John Mayer, e quanto solo il senso di tutto ciò?)

Poi ho ripreso a fare quello che dovevo fare, ho richiuso nella borsa il mio portatile, ho spento la luce, ho lasciato la stanza nella sua penombra, ho chiuso a chiave, e me ne sono andato.

Mi è rimasto solamente, e mi rimarrà sempre, il ricordo di tutto questo. Il senso di John Mayer, anche senza forse capirne il senso veramente.

Un po' mi manca John Mayer, un po' mi manca lo stare insieme a una persona, dopo - e intendo, non prima, non durante, ma dopo.

Ma poi non mi manca una persona, che sembra così, una a caso. In realtà ho tutto quello che basta, e non mi basta lo stesso, allora forse sono io che non mi basto mai, e forse per fortuna è proprio così, che ad accontentarsi siamo sempre pronti dopo morti.

Apprezzare sempre, accontentarsi mai.

Apprezzerò John Mayer sempre, ma non mi accontenterò di John Mayer mai.


martedì 24 marzo 2015

Cosa penso di Bologna

Prendendo in prestito le parole di (this) e degli Uochi Toki cercherò di spiegarvi il mio rapporto conflittuale con Bologna: perché non la amo e non la odio e nemmeno la apprezzo, perché penso che sia bella ma in fondo non mi piace anche se vorrei farmela piacere, perché forse prima o poi ci andrò a vivere ma è lo stesso prima o poi con il quale mi dico che proverò a donare il sangue anche se ho la pressione molto bassa e probabilmente svenirò / sverrò (penso siano valide entrambe le forme) (invece sono già registrato come donatore di midollo osseo e di organi) (fatelo anche voi, dai).
Vado al dunque... cosa penso di Bologna?

Rispondo con la prima parte, tratta da un post pubblicato su blog dei bolognesi di (this):

"L’unico vero amore della mia vita l’ho conosciuto quando arrivai in questa città per studiare. Lei era bellissima e misteriosa. La conobbi sceso dal treno quasi per caso, mentre aspettava chissà chi ma giureri fosse lì per me. Ebbi una epifania pari solo a quella di un teenager degli anni ’90 che vede per la prima volta Natalie Imbruglia nel video di Torn. Mi scontrai con lei con la delicatezza di un goffo ciccione che si fa largo tra la folla per arrivare alle pizzette fredde di un aperitivo. Con una scusa la convinsi a farmi conoscere le strade della zona universitaria, a passare sotto i monumenti che fino a quel momento avevo visto solo in fotografia, a mangiare il cibo da strada locale, vero termometro della civiltà di una popolazione.
L’estate era in dirittura d’arrivo e solo la consapevolezza di aver aperto un nuovo capitolo della mia vita sopiva l’amarezza di un nuovo autunno alle porte. Città nuova, indipendenza garantita comunque da un assegno mensile dei genitori, convivenza con gente di tutto il mondo e finalmente materie da studiare che io e solo io avevo scelto con la consapevolezza e la maturità di un 19enne con le idee chiare e le palle del proprio futuro ben strette in pugno.
Le prime settimane ci siamo annusati a vicenda. Lei veniva da alcuni anni di relazioni turbolente con persone che non ne avevano gradito lo spirito libero e la voglia di mostrarsi. Io francamente ero bloccato da questo suo passato così burrascoso e per adeguarmi adottai atteggiamenti e abitudini che oggi ricordo con tenerezza. Abbigliamento sdrucito e una rigida dieta fatta di droghe scadenti e vino in offerta, ritmi di vita da barbagianni e igiene personale discutibile. Il tutto ovviamente condito da una inammissibile condotta universitaria e alcuni problemucci con lo Stato.
Con il tempo ho imparato a battere il mio sentiero personale e ad equilibrare le pulsioni autolesioniste con il mio amore incondizionato per lei. Insieme siamo cresciuti fino ad ottenere la maturità di relazione che solo chi sa perdonare può godersi. Intanto le ondate di studenti che ogni anno arrivavano per conoscere la città mi davano sempre più una sensazione di invasione del territorio, cominciai a ricordare con nostalgia i primi tempi in quel luogo che ormai non c’era più, ferito a morte dalle sferzate di un giovanilismo forzato che mal si accostava alla bonarietà borghese della città.
Mi accorsi con stupore che la nostra relazione mutava col mutarsi della città. Più le spinte dal basso proponevano uno svago deviato e irrazionale, più noi ci chiudevamo a riccio per preservare la nostra intimità e complicità. Ma non sempre ciò che più ami può fiorire al buio di una stanza, protetto dalle fredde correnti del cambiamento. Quanto si può andare avanti facendo finta di nulla? Cosa ci tiene ancora insieme, il ricordo o il futuro?
Chi si avvicina ai 30 anni vive ogni giorno come un conflitto. Accelerare o frenare. Guardarsi indietro o progettare. Procrastinare o procrastinare assai. La strada dell’eccesso porta al palazzo della saggezza, sosteneva Blake evidentemente ancora strafatto di oppio e sconvolto dai primi sintomi dell’itterizia. Io a quel palazzo non ci arrivai mai. Mi fermai prima. Ma lei proseguì.
La vedo ancora oggi, mutata e mutante, che fa della propria bellezza l’unica carta giocabile per attirare le attenzioni su di sé. Non c’è gioia nei suoi occhi, non c’è memoria di quel che è stata. Vedo solo rassegnazione e consapevolezza che i ricorsi storici hanno cicli di vita ben più brevi di quelli che il Vico ci voleva rifilare.
Non l’ho potuta più guardare con gli stessi occhi.
La magia, come per incanto, era svanita.
Lei era di un altro.
Lei era di altri.
Lei era di tutti.
Come è sempre stato e sempre sarà, nonostante lo sguardo innamorato di un ragazzino che da questa città si era fatto rubare il cuore."

...e proseguo con la seconda parte, tratta da "Le città", canzone degli Uochi Toki:

"Bologna mi piace solo perché c’è un sacco di gente con cui litigare e tante costruzioni da osservare. Odio la multi-identità che questa città si porta dietro, odio la sua tradizione di libertà conservante, odio la gente non autoctona — cioè la maggior parte. Vedo flussi di gente come fiotti di sangue da ogni parte: risalgo la corrente per capire da dove parte questo flusso umano che mi coinvolge come un davanzale in marmo. Mi adatto nella misura in cui mi permetto di andare in giro e osservare come animali questi esemplari di umani, studentesse fuori sede ed universitari inconsciamente ipocriti in cerca di prede e di un passato da raccontare. E poi la ritualità di questo luogo influenza solo colui che ci crede, colui che non vede la data di scadenza sul ricambio generazionale, rischiando di trovarsi in una città, in un locale pieno di gente di passaggio, facendo finta di non stare invecchiando. Solo i veri duri possono abitare a Bologna, sfruttando la corrente del divertimento alternativo con il giusto peso negli occhi. Una città non può essere solo università, slogan, ebbrezza e ragazze. Guardate meglio!"


E mi sa che non ho altro da aggiungere. Per ora.



Fonti:
prima parte: "Scusa amore, si è fatta una certa" di Danji, pubblicato su (this) il 28/06/2013
https://thisnothat.wordpress.com/2013/06/28/scusa-amore-ma-si-e-fatta-una-certa/

seconda parte: "Le città" di Uochi Toki, pubblicato sull'album Laze Biose (2006) https://www.youtube.com/watch?v=ghkf84hMjTo