martedì 23 luglio 2024

Abbracciati dal tuo silenzio - Vale in the sky with the bretzels


Passo di fianco alla mensola dei libri di serie B, dei trofei caduti in prescrizione, delle bottiglie vuote che non so più dove mettere, e ritrovo il tuo sguardo.

Ok bello l'inizio del post, in realtà mi sei tornata in mente e sono tornato nello studiolo a riguardare la tua foto, probabilmente anche un po' impolverata, ma nel dubbio evito di passarci un dito sopra.

Con quel sorriso lì, di una che sta per mettersi a ridere.

Chissà dov'è stata scattata quella foto - sembra quasi un matrimonio, o giù di lì - ma anche poi chi cazzo se ne frega. Potrei scoprirlo chiedendolo a qualcuno, o con una ricerca negli anfratti di Facebook, ma la verità è che non me ne frega niente, perché non cambia la sostanza.

Magari era un matrimonio, magari c'ero pure io, magari ci sono anche delle foto di me dove ho sicuramente uno sguardo meno lucido.

Non so se è di te che vorrei parlare - ne ho poi diritto? Ho diritto a rispolverare sentimenti, gioie, dolori, pensieri, legati a te? Te che non ci sei più, che non hai più diritto di replica.

Forse sbaglierò, ma solo chi non fa un cazzo non sbaglia mai: quindi rischiando di sbagliare, andrò avanti lo stesso, pensando che forse tu stessa mi avresti detto "mo sè valà di bèn che vadano a spendere, fossero questi i problemi"... o qualcosa del genere, nel tuo pragmatismo renazzese, farcito di forme dialettali.

Chiedo quindi scusa in anticipo se qualcuno si sentisse offeso da quello che sto scrivendo, ovviamente non è questo lo scopo... ma tendenzialmente perché non c'ho voglia, non c'ho voglia di fare un cazzo di mio, figurati se ho anche il tempo e la voglia di mettermi a scrivere per offendere qualcuno.

Neanche se mi pagano, ma tanto non mi pagano.

Alla fine, scrivo, e ho sempre scritto, per me, in primis: se poi i miei gusti personali riguardo me stesso, hanno coinciso con quelli di altri, tanto di guadagnato.

Per me, per voi: per voi, per me.

Ad occhio sono più di cinque anni, che non sei più tra noi. Le frasi fatte sulla morte sono forse una cosa delle più divertenti, mi ricordano tanto quell'universo di frasi fatte e di circostanza che circonda un certo mondo giornalistico (ed in particolare quello sportivo).

La morte fa parte della vita, prima o poi ne facciamo tutti esperienza in modo più o meno forte.

Sono rimasto orfano di madre abbastanza giovane, quindi è logico che possa venire da pensare che ho fatto una sorta di vaccino contro certe cose... o che magari abbia un chiodo più grande ancora da scacciare.

Eh amici, purtroppo no: non funziona esattamente così. Per fortuna o purtroppo, ma non è così: perlomeno non per me.

Ma non voglio perdermi in un discorso più grande (perlomeno più grande di me) e mi fermo alla conclusione: la tua partenza, a me, non è ancora andata giù del tutto.

Bella forza, a chi è che può andare giù la scomparsa di una amica, madre e moglie 34enne? Penso a nessuno, anche ragionandoci con razionalità.

Però, in tante altre situazioni una ragione, un senso anche quando un senso non ce l'ha, me lo sono dato.

Qui, fatico ancora, e l'unica banale e semplice conclusione che mi sono dato, è che qui la quadra tocca trovarla a chi è restato.

D'altronde, tu il tuo l'hai già fatto: e ti immagino lamentarti di tutti contributi INPS versati senza mai andare in pensione, con la presa per il culo finale che la reversibilità, se poi c'è, non te la prendi nemmeno te.

Neanche puoi andare a prenderti una bella borsa o un paio di scarpe. Tutte quelle ore di collegio docenti...

Che inculata, la vita, eh?

Ah, avessimo alternative, allora poi.

Mi piacerebbe ancora ritrovarti da Cucco, magari di nuovo con un passeggino, o con tutti i mezzi e gadget che il capitalismo unito alla genitorialità possono spingerti a spingere in giro... e invece ogni tanto ritrovo parte della tua famiglia, in cui qualcuno ha il mio stesso nome di battesimo.

Infatti qualche volta mi sono anche voltato con stupore, che di solito con il nome di battesimo mi chiamano i familiari quando sono incazzati.

Ma è tutto nella mia testa, ora.
E in questo assordante silenzio, mi torna in mente Piero Ciampi, con quella "assenza" che è un "assedio", ripreso da Vasco Brondi quando ancora sotto le Luci della sua Montedison Elettrica diceva che siamo "assediati dal quello che manca".

Non credo ti sarebbe piaciuta questa terminologia bellica, forse avresti detto che non sei né Putin né Israele: e hai ragione tu, è tutto un film che ci stiamo facendo noi.

E allora in questo caso suona meglio - e sono d'accordo preferiresti anche tu questa forma - dire che siamo abbracciati dal tuo silenzio, ed è una bella consolazione, di questi tempi, credimi (ma hai visto quanto costa adesso al supermercato il caffè Pellini? Quello per la macchina, che io faccio colazione da solo e non faccio la moka... Signora mia e "nonna" nostra, dove andremo a finire?)

E mi viene anche in mente il buon Vasco (Rossi) senile, quello del "eh già siamo ancora qua". E' poi facile per lui, che effettivamente riempie ancora gli stadi.

Fa più effetto pensare a te, che invece, sei comunque ancora qua. Quasi in smartworking. Va mo là.

E allora niente, qua il senso che ci sia o non ci sia ce lo diamo noi, tu il tuo l'hai già fatto: noi testa bassa e pedalare.

C'è solo una cosa, che non mi torna, senza voler scomodare religioni e misticismo, ma nemmeno un Lele Adani ubriaco di garra charrua: è che spesso si dice "sconfitta da un brutto male", "ha perso la battaglia con la malattia", ecc. ecc.

A quale sport stiamo giocando?

Perché se è uno sport di squadra (e forse lo è?) allora il risultato finale si guarda alla fine.

E io, boh, io non sono così sicuro che il risultato finale di questa partita sia una sconfitta. Mi sa che ci sia qualcuno ancora dietro a giocarla.


Magari puzzando di patatine fritte, come quelli che dal 26 al 28 luglio sono al parco dei Gorghi di Renazzo per il Woodstock.

Dove ancora mi aspetto di vederti con un cestino di bretzel in mano anche se ci sono 32 gradi, dove poi forse ti vedo tutti gli anni.


Non c'è sconfitta nel cuore di lotta: non c'è assenza nel cuore di chi ama.


(o qualcosa del genere, magari andate a trovare una frase migliore su chatgpt - ok Vale lo so che non la sai usare l'intelligenza artificiale - adesso ti cerco io una bella frase e te la mando su whatsapp - tu portami un bretzel e già che ci sei una Augustiner media, grazie)


P.S. Un silenzioso abbraccio, questa volta terreno, a chi continua a giocare la partita anche per la Valentina.

martedì 16 aprile 2024

Quaranta sono troppi - Aspettative e disillusioni da un mercato di riparazione


Milano, gennaio 1998.

Paulo Manuel Carvalho de Sousa, noto ai più semplicemente come Paulo Sousa, è un calciatore portoghese in cerca di riscatto.
27 anni, centrocampista, presenza fissa della nazionale del suo paese (con la quale ha disputato la fase finale del mitologico Euro '96 in Inghilterra), con la quale si è laureato campione del mondo under-20 nel 1989.
A livello di club ha già conquistato 10 trofei, tra cui due Champions League consecutive (con la Juventus nel 1996 e l'anno successivo con il Borussia Dortmund) e un scudetto (sempre con la Juve, nel 94/95).
Il biennio a Torino lo ha consacrato tra i migliori mediani della scena internazionale, anche se soffre spesso di problemi alle ginocchia, che ne stanno condizionando sempre di più il rendimento.

Il suo arrivo a Milano, sponda Inter, nel gennaio 1998, rappresenta per lui una nuova sfida: con il suo ritorno nello stivale punta allo Scudetto (che manca ai nerazzurri da 9 anni).
Il suo manager è lo stesso di Ronaldo (il Fenomeno, quello vero) e questo gli ha dato modo di parlare con lui e farsi convincere.
C’era il migliore al mondo in quel momento, ovvero Ronaldo. Loro condividevano la mia mentalità, perché volevano vincere tutte le partite avrà modo di dire diversi anni dopo.

In effetti l'Inter è in corsa anche per la Coppa Uefa: ma Paulo Sousa, avendo già giocato in Champions League per il Borussia, non può entrare nelle liste Uefa dei nerazzurri.

L'Inter, guidata da Mister Simoni, ha avviato da pochi anni il grande periodo morattiano: acquisti di giocatori a spron battuto, tra grandiosi intuizioni (Roberto Carlos, Javier Zanetti, Ivan Zamorano, Djorkaeff, Recoba, Simeone) e clamorosi bidoni (Rambert, Caio, Sforza) ed inspiegabili cessioni (quella di Robert Carlos su tutte). L'acquisto senza dubbio più importante è però quello di Luiz Nazario da Lima, detto Ronaldo, poi noto come "il Fenomeno".
Dopo un paio di annate incolori, la stagione 97-98 sembra quella buona, e guidata da Ronaldo, appunto, l'Inter sogna di riportare sulla maglia lo scudetto che manca ormai da 10 anni.

Il mercato di riparazione è sostanzioso, proprio in vista di una seconda parte di stagione dove l'Inter vuole lottare su tre fronti (anche se a gennaio uscirà malamente ai quarti della Coppa Italia contro i cugini del Milan, che rifileranno un sonorissimo 5-0 già all'andata).
Escono Massimo Tarantino, Nicolino Berti, Massimo Paganin, Branca e Ganz: arrivano Colonnese, Martin Rivas, Mauro Milanese e lui, Paulo Sousa.

Da poche stagioni l'Italia, così come il resto d'Europa, si è adeguata alla numerazione fissa sulle maglie, con tanto di nome, e le società ancora bene o male assegnano i numeri preferendo la scelta dei numeri al di sotto del 30. Numeri che, ancora, non sono sostituibili (come invece accade oggi).
Ad esempio, il numero 3 di Tarantino, anche se mai utilizzato in campionato, al momento della sua partenza per Bologna non può essere utilizzato dal nuovo arrivato Colonnese, che opta per il 33.

Appena due anni prima il Bel Paese aveva commentato con disappunto il numero 30 di Vieira, arrivato a gennaio al Milan, e quando Paulo Sousa è costretto a scegliere il numero 40, scoppia il finimondo.
40.
Quaranta.


Siamo a gennaio, e l'Inter ha già avuto in rosa 40 giocatori. In campo ne vanno 11: vero è che la panchina da questa stagione è salita a 7, ma al netto delle cessioni, ne resta sempre almeno il doppio in tribuna.

Questo porterà ad una innumerevole serie di gag e battute, che si protrarranno per anni, anche a causa del proseguirsi di insuccessi sulla sponda nerazzurra di Milano.
Ad esempio, gli interisti Ficarra e Picone costruiranno proprio uno sketch sulla famosa "panchina lunga".


Come va a finire questa storia? Il big match tra Inter e Juve, lo scontro di Ronaldo contro Iuliano, il rigore che c'era e che non c'era, la Juve che vince lo scudetto, l'Inter che (senza Paulo Sousa) vince la Coppa Uefa.
Il nostro portoghese resterà poi a Milano per un'altra stagione e mezza, cominciando la sua parabola discendente, senza più nessun trofeo, e tra infortuni e problemi fisici vari sarà costretto al ritiro a soli 32 anni, dopo essere passato anche dal Parma (in piena epoca Tanzi).

Oggi Paulo Sousa è un allenatore, e in ordine sparso, è tornato in Italia con esperienze non molto convincenti con Fiorentina e Salernitana, ha guidato la nazionale polacca ad Euro 2020, il Flamengo, e vinto due campionati (quello svizzero con il Basilea e quello isrealiano con il Maccabi Haifa), oltre a due Supercoppe e una Coppa di Lega in Ungheria, con il Videoton.
Una onestissima carriera, anche se sicuramente ancora non all'altezza di quella che ha avuto in campo.

E ora che quel lungo capello castano si è accorciato, lasciando spazio ad un capello bianco con una acconciatura più simile all'odierno Ligabue, ci resta quest'ultimo momento di rilievo del Paulo Sousa calciatore.
Quando ancora quello Scudetto poteva essere interista.
Quando ancora Paulo poteva tornare sulla cresta dell'onda del calcio, calcandone i palcoscenici più prestigiosi, da protagonista.
Quando ancora si diceva che quaranta fossero troppi.

E invece.


lunedì 22 gennaio 2024

Sono tornato solo per controllare se avevo staccato il gas


Freddo, prevalentemente e principalmente freddo, nelle luci di chi non ha problemi con i limiti dei 30 km/h delle metropoli.

Mura e palazzi orfani delle parole di Vasco Brondi, in una provincia che cambia e non cambia, sempre pronta al lento ma progressivo ricambio generazionale dei bar.

Un passo alla volta, sui marciapiedi sconnessi, laddove i pedoni sono sempre l'ultimo pensiero di ogni cantiere e lavori in corso.

Una leggera ebrezza, quel senso di equilibrio di chi continua gioca a fare il Pippo Inzaghi con l'etilometro, perennemente sul filo del fuorigioco della patente.

Alla fine sei passato al Campari, giusto perché l'Aperol ti ha rotto il cazzo: c'è voluta una vita, ma ce l'hai fatta.

E un'altra Ford che passa, senza nessuna storia, senza nessuna possibilità di entrare mai nel registro delle auto storiche, col suo carico di seggiolini a norma.

Vorresti sbloccare il risultato - ora - ma sarebbe troppo presto. Le partite durano 90 minuti, e a volte anche 180, ma questo è un campionato difficile.

Non segneresti, non segnerai.

Alla fine, avevi ragione, alla fine non è nemmeno un brutto posto in cui vivere. C'è voluta una vita, ma l'hai capito: ce l'hai fatta.

E intanto i bar aprono e chiudono, le macchine passano, le lampadine si fulminano, i marciapiedi si sgretolano, davanti agli assessori comunali e alle tessere elettorali che si riempiono di timbri.

Anche Wilshere ha smesso di giocare, sembra siate rimasti solo tu, Fernando Alonso e Carlos Sainz (senior) a non volersi rassegnare al tempo che passa. Eppure non sei loro, né tantomeno il Kazu Miura, il tempo passa comunque e anche su di te lascia i suoi segni. Inesorabili.

Quanto - è lontana - la pace?

Quanta guerra - ancora - per chi non l'hai mai vissuta - davvero?