lunedì 22 gennaio 2024

Sono tornato solo per controllare se avevo staccato il gas


Freddo, prevalentemente e principalmente freddo, nelle luci di chi non ha problemi con i limiti dei 30 km/h delle metropoli.

Mura e palazzi orfani delle parole di Vasco Brondi, in una provincia che cambia e non cambia, sempre pronta al lento ma progressivo ricambio generazionale dei bar.

Un passo alla volta, sui marciapiedi sconnessi, laddove i pedoni sono sempre l'ultimo pensiero di ogni cantiere e lavori in corso.

Una leggera ebrezza, quel senso di equilibrio di chi continua gioca a fare il Pippo Inzaghi con l'etilometro, perennemente sul filo del fuorigioco della patente.

Alla fine sei passato al Campari, giusto perché l'Aperol ti ha rotto il cazzo: c'è voluta una vita, ma ce l'hai fatta.

E un'altra Ford che passa, senza nessuna storia, senza nessuna possibilità di entrare mai nel registro delle auto storiche, col suo carico di seggiolini a norma.

Vorresti sbloccare il risultato - ora - ma sarebbe troppo presto. Le partite durano 90 minuti, e a volte anche 180, ma questo è un campionato difficile.

Non segneresti, non segnerai.

Alla fine, avevi ragione, alla fine non è nemmeno un brutto posto in cui vivere. C'è voluta una vita, ma l'hai capito: ce l'hai fatta.

E intanto i bar aprono e chiudono, le macchine passano, le lampadine si fulminano, i marciapiedi si sgretolano, davanti agli assessori comunali e alle tessere elettorali che si riempiono di timbri.

Anche Wilshere ha smesso di giocare, sembra siate rimasti solo tu, Fernando Alonso e Carlos Sainz (senior) a non volersi rassegnare al tempo che passa. Eppure non sei loro, né tantomeno il Kazu Miura, il tempo passa comunque e anche su di te lascia i suoi segni. Inesorabili.

Quanto - è lontana - la pace?

Quanta guerra - ancora - per chi non l'hai mai vissuta - davvero?



domenica 21 agosto 2022

Being There 25 Years Ago

Oasis - Be Here Now


Quando è finito il britpop?

L'argomento è ampiamente dibattuto. Secondo una scuola di pensiero che indica la fine di quell'epoca quando Gareth Southgate sbagliò il sesto rigore nella semifinale degli europei di calcio del 1996, consegnando la vittoria e l'accesso alla finale agli acerrimi nemici tedeschi.

(noi quell'anno uscimmo al primo turno)

Per chi non fosse abbastanza appassionato di cultura pop britannica, il rigore di Southgate è pesato parecchio ai nostri amici d'albione, tanto che quasi un quarto di secolo dopo se ne trovano a chiacchierare il principe William con lo stesso Southgate.

(vi immaginate Mattarella che chiacchiera con Roby Baggio del rigore di Pasadena?)

Per cancellare quest'onta... o perlomeno, per andarci sopra, servirà la finale di Euro 2020, giocata nel 2021, quando invece saranno gli errori di Rashford, Sancho e Saka a dare una nuova delusione (e pure più grossa) di quella precedente. Ma questa, come ben sapete, è un'altra storia. (Anche se Southgate ne è comunque tra i protagonisti, stavolta in veste di C.T. dell'Inghilterra).

Torniamo a noi: il britpop finì davvero a Wembley, con quel rigore, il 26 giugno 1996?

Di Euro 96 ne parla spesso anche l'Ultimo Uomo (ad esempio qui) e la stessa domanda se la anche il The Guardian (qui): se sul legame tra calcio e la musica d'oltremanico si è universalmente concordi, le opinioni si fanno meno uniformi sulla linea da tracciare per identificare il termine di quell'epoca.

Se il buon Gareth non ha delimitato il termine di quei fasti gloriosi, di quella fine ne ha comunque segnato l'inizio.

Anche Wikipedia, a spanne, indica la fine del britpop nel 1997: anno in cui uscì Blur, l'omonimo album della band londinese contenente Song 2 (che di britpop non ha nulla) e Be Here Now, che usciva proprio il 21 agosto di venticinque anni fa.

E' forse la fine del britpop? Non saprei: se questo genere fosse un film, Be Here Now ne sarebbe probabilmente l'ultima malinconica scena.


Elicotteri, fumogeni, parka, guerriglia di periferia: dite che è abbastanza per aprire il terzo album?

Concepito a fine 1996 dai fratelli Gallagher, tra nuvole di cocaina e altri eccessi di ogni tipo, la critica lo osanna all'indomani dell'uscita, per poi fare marcia indietro e ritrattare nei mesi seguenti.

Noel lo giudica il peggior album della band, e farà in modo di ignorarlo nel doppio best of Stop The Clocks: Liam non ne è così dispiaciuto, ma è opinione comune che l'album non sia assolutamente all'altezza delle due gemme precedenti, Definitely Maybe e What's the Story Morning Glory.

Nel giudizio pesano una sovra produzione eccessiva, sonorità macchinose e ridondanti, chitarre registrate fino a 10 volte una sopra l'altra, coda strumentali eterne (con introduzione altrettanto lunghe) per un totale di 71 minuti.

Intendiamoci: le hit non mancano, a partire da Stand By Me fino a Don't Go Away, senza disdegnare D'You Know What I Mean e All Around The World.

Infatti Noel ne curerà nel 2016 una special edition, con tanto di demo, live, e un riarrangiamento di D'You Know What I Mean (chiamato "NG rethink") , che ripulita della "sovraproduzione" del tempo forse è più incisiva e lascia respiro ad un arrangiamento più radiofonico, ma perde quella sporca patina britpop che tanto contraddistigueva appunto la band all'epoca.

(a voi così piace? a me no)

Comunque, va detto, altre band lancerebbero la propria carriera con questo album: eppure, gli Oasis erano già diventati "bigger than Jesus" o "more important than God" che dir si voglia. Per dirlo con parole mie: il mito degli Oasis era ormai più grande di loro, non avrebbero mai potuto produrre più niente che potesse tenere testa alla loro fama.

A mio avviso, nonostante tutto, resta più debole il successivo Standing on the Shoulder of Giants, sia nei pezzi che nella produzione.

Be Here Now resta una sorta di epitaffio, una sorta di ultimo tentativo, un po' come quando vai in discoteca e ti accorgi che ormai sei troppo vecchio per fare questa cosa e ti resta questo ricordo sfuocato e annacquato dall'alcol di un estremo ultimo tentativo fuori tempo massimo.

Cioè una cosa che non ho ancora provato.

Ed è per questo che comunque a me quest'album piace un sacco lo stesso.

Anche perché fu uno dei primi album che mi regalarono. Ed era in cassetta! O come diremmo correttamente oggi, in musicassetta.

In 25 anni, ne cambiano di cose. Eppure...



lunedì 19 luglio 2021

BOMBAY (ovvero il film "Yesterday" ma girato in Italia)

 ATTENZIONE: quello che state per leggere contiene inevitabilmente spoiler sul film "Yesterday" (Regno Unito 2019, regia di Danny Boyle, con Himesh Patel e Lily James).
Quindi, se ancora non l'avete visto, prima di leggere il post andate a recuperarlo (ora ad esempio lo trovate su Prime Video).

trailer di Yesterday


State per leggere la versione italiana di Yesterday: ovvero, cosa succederebbe se in Italia tutti ci dimenticassimo di CALCUTTA?


BOMBAY

(Italia, 2022)

Soggetto di Paolo Plinio Albera ( @myspiace )

Regia di Sydney Sibilia

Sceneggiatura di Enrico Atti, Joao Pez Lazzaroni e Nicholas Pettersauber


Italia, 2021. In un mondo che fatica ad uscire dalla pandemia, l'Italia fa ancora più fatica degli altri paesi. Paolo (interpretato da uno straordinario Edoardo Leo) è un giovane ma non più giovanissimo copywriter freelance, alle prese con i 600 euro, i mancati incassi, i mancati lavori, la mancata mutua, le mancate ferie, le mancate tutele: insomma, le mancanze.

Tra queste mancanze, non ultima, la musica: in gioventù ebbe un discreto successo locale con una band indie-rock (gli -Smog!), ma ora passa le sue tristi serate a cercare di scrivere il pezzo per sfondare, e finalmente, coronare il suo sogno: pagare l'affitto facendo il cantautore, proprio come Calcutta.

I pochi brani caricati sul soundcloud incontrano solo l'approvazione della sua migliore amica Sara (una irreprensibile Michela Giraud), con la quale vive un rapporto di "forse ci sta, forse no" da troppi anni. Lei gli promette che prima o poi riuscirà a organizzargli qualche data in giro: eppure, alla fin della fiera, lei non gliel'ha mai data. La data. E nemmeno quell'altra cosa.

Un bel giorno, mentre Paolo torna sconsolato dall'ennesima serata in cui ha fatto sentire i suoi pezzi a Sara, l'Italia è preda di un blackout nazionale. Proprio in quel momento un tram manca la frenata di emergenza e si stampa sul bel faccione di Paolo, che passa 24 ore in coma farmacologico prima di risvegliarsi senza alcun danno permanente.

Alle sue dimissioni dall'ospedale, i medici consigliano molto riposo e un po' di Paracetamolo, in caso si riacutizzino dolori o sintomi influenzali.

"Mi hanno dato una Tachipirina 500, ma se ne prendo due, diventano 1000!" scherza a casa di Sara.
"Si vabbè Paolo, ho capito che hai picchiato la testa, ma non è che questo può sdoganare tutte le tue battute di merda."
"Ma come Sara, dai, è Paracetamolo, la canzone di Calcutta."
"Chi?"
"Dai!"
E così imbraccia la chitarra (quella classica, lo scassone con cui imparò a suonare vent'anni prima, che la chitarra buona è finita sotto le ruote del tram e nessuno c'ha i soldi per regalargliene una nuova) e suona Paracetamolo.

Sara lo guarda strabiliata.
"Paolo! Sai che... fa cagare, ma funziona? Sempre un po' una roba di Rino Gaetano in hangover. Quando l'hai scritta?"

Paolo intuisce che qualcosa non funziona, e così scopre la verità: nel blackout in cui si è scontrato con il tram, l'Italia ha incredibilmente dimenticato Calcutta.
E non solo lui: Gazzelle, Galeffi, i Viito, Fulminacci... tutti scomparsi. Coez fa rap, Carl Brave e Franco 126 fanno trap, i Thegiornalisti non si sono mai sciolti ma dopo l'insuccesso di "Completamente Soli" ora faticano a riempire i locali.
Anche Sanremo, è radicalmente diverso: l'ultima edizione ha visto sul palco dell'Ariston gente tipo Biagio Antonacci, Iva Zanicchi, la reunion dei Pooh, Valeria Rossi e Marco Carta.
Dell'it pop, nessuna traccia. L'indie italiano è ancora intaccato, uno sparuto raduno sotterraneo di rockers alternativi, sfigati, e radical chic di bassa lega, che vagano per locali e circoli Arci tra Milano, Roma e Bologna.

E qui, Paolo, ha l'illuminazione: usare i pezzi di Calcutta per diventare famoso, come lo diventò lui.

Così registra i primi demo, li carica su Soundcloud, mette qualche video su Vimeo, e spero che il pubblico si accorga di lui.
Purtroppo, non succede niente, fino a che un giorno gli scrive su Instagram un certo Mattia Bolognesi (interprato da un molto convicente Guglielmo Scilla) , produttore della Goikoetxea Dischi. "Mi piacciono i tuoi demo, voglio farti fare un EP! Però Paolo è un nome un po' di merda... non hai un nome d'arte?"
"Boh..."
"Boh?"
"Boh... Bombay!"
"Bello! Che mi cita anche gli Afterhours, favoloso!"

E così Paolo, aka Bombay, parte alla volta di Bologna, e registra le prime canzoni.

"Cosa mi manchi a fare", "Paracetamolo" e "Frosinone", ma anche "Oroscopo", stavolta però con il featuring imposto con Lo Stato Sociale, e "Hubner" che diventa "Chiesa" (con riferimento al Campione d'Europa, Federico).
"
Io certe volte dovrei fare come Fede Chiesa
e non lasciarti a casa mai senza far la spesa"

Paolo, riluttante, deve accettare queste imposizioni: l'Italia che trova ora è diversa da quella che trovò Calcutta a metà degli anni '10.

A quel punto però, il successo è travolgente: il boom di clic su Spotify, le ospitate a Radio Deejay, i concerti, la chiamata come ospite a Quelli che il Calcio, e finalmente il sogno che si avvera: la ricchezza? Assolutamente no, ma la possibilità di pagare l'affitto con la musica si concretizza.

Il rapporto con Sara però si incrina, la ragazza finalmente gliela dà in preda all'alcol ma la mattina dopo se ne pente, dicendo di aver rovinato tutto, che forse è meglio se la finiscono lì, eccetera eccetera.
Paolo è dispiaciuto, ma alla fine poi ha scoperto che con la musica di successo si guzza in giro anche da altre parti, e per recuperare l'amicizia con Sara ci sarà poi tempo.

Anche perché nel mentre è arrivata la chiamata di Claudio Cecchetto (interpretato da Cecchetto stesso), che vuole fare di lui il nuovo Gianni Morandi: Paolo non può fare altro che accettare, anche se all'orizzonte si pone un problema: cosa fare quando i pezzi di Calcutta finiranno?

Inoltre, un losco stalker continua a perseguitarlo su Instagram, aprendo ogni volta account diversi: e un giorno se lo trova davanti, sotto ai portici di Via Indipendenza.
"Ammerda! Te cercavo, merda! Sono l'autista del tram... cazzo se lo sapevo acceleravo! Porcatroia, c'eravamo liberati delle canzoni di sto stronzo, beh arrivi te, e ce le ricanti? Mavvaffanculo!"
Il soggetto è l'unico, che oltre a Paolo, ricorda dell'esistenza del vero Calcutta. Per fortuna viene fermato dai passanti, e arrestato dai Carabinieri, ricevendo un TSO. Nessuno ovviamente crede alle sue parole, viene preso per matto, e così la carriera di Paolo così è salva.
Eppure, preso dal rimorso, Paolo decide di cercare il vero Calcutta, Edoardo D'Erme: l'autista del tram, prima di essere ammanettato, gli ha confidato che si trova lì a Bologna.

Così, dopo giorni e notti di ricerche, finalmente lo trova: Calcutta è sotto i portici di piazza Verdi, con un bellissimo cagnolone e una Heineken da 66 cl.
"Ce l'hai un euro? Che devo prendere il biglietto del treno e sono senza..."
"Ti do 20 euro, così ti prendi un biglietto intero. Ma prima dimmi, Edoardo, ti ricordi di quando hai scritto Paracetamolo? Pesto? Frosinone?"
"Come fai a sapere come mi chiamo? Senti... io non so di che cazzo stai parlando, se vuoi darmi dei soldi bene sennò fa la stesso. Se sei della DIGOS non c'ho niente, te lo digos fin da subito."

Paolo resta amareggiato e contrariato, così lascia i 20 euro a Calcutta e se ne torna a casa.
Che fare? Ormai la pressione dei media è alta, viene fermato per fare selfie e instagram stories, i giovanissimi cantano le sue canzoni su Tik Tok, e Paolo ormai non riesce più a dormire, sentendosi un impostore.
Decide così di rivelare tutto, in diretta su RTL 102.5 radiotelevisione, nella serata finale del tour all'Arena di Verona.
Terminata la versione orchestrale di "Gaetano", con alla tastiera Giovanni Allevi, Paolo si avvicina al microfono, tremante.
"Ragazzi, è tanto che ho pensato a questo momento. Io, ora, devo dirvi la verità. Queste canzoni... non le ho scritte io. Le ha scritte..."
E si blocca. E ripensa alle rate della macchina, alle birre Splugen, ai soldi chiesti in prestito ai genitori, ai sacchi a pelo in aeroporto, ai Flixbus, alla lavastoviglie rotta, e a tutta la sua vita che fu prima del blackout e dell'incidente.
"...queste canzoni le ha scritte DIO!"

Paolo decide quindi di continuare la carriera sfruttando i pezzi di Coez, Tommaso Paradiso, e tanti altri artisti it pop che l'Italia non ha avuto modo di conoscere.

E così arrivano il terzo posto a Sanremo (con vittoria nelle classifiche di streaming), l'udienza dal Papa, il concertone a San Siro, la candidatura agli Oscar come miglior colonna Sonora per "La vita davanti a ", e la festa all'Arena Parco Nord per festeggiare la vittoria della Coppa Italia del Bologna del 2022.

E Sara?
Ma sì, alla fine, finché dura, trova il modo anche di portare avanti una scopamicizia, che alla fine due botte gliele avrebbe sempre voluto dare.
Titoli di coda.



EDIT: Mi ha scritto BOMBAY, quello vero (sì ne esiste uno vero, del quale avevo un vago ricordo, anche se poi evidentemente ne avevo rimosso la percezione), che ha quasi creduto che fosse uscito un film su di lui senza il suo consenso. Poi si è rinsavito, si è fatto una risata e mi ha scritto.
Diamo a Bombay quel che è di Bombay: qui trovate il suo Bandcamp https://bombaymusicstore.bandcamp.com/

....forse siamo davvero in una realtà parallela in cui avete tutti rimosso Bombay, o solo io?

sabato 20 febbraio 2021

Più o meno, un anno fa: da un anno

Io e la mia mascherina stiamo bene insieme.
(la mia prima mascherina chirurgica "usa e getta": usata per due mesi, e poi gettata)

Febbraio 2020

C'è un nuovo virus, pericolosissimo, che è uscito fuori in Cina, si diffonde con molta facilità, è come una banale influenza ma per chi soffre di altre patologie può risultare letale.
Come la SARS, come la suina, come tante altre. Sì, vabbè.
Questa cosa prende piede in Cina, capirai, in Cina c'è un miliardo di persone di cui 900 milioni in condizioni di povertà, in Cina non ci sono i diritti civili, in Cina hanno chiuso tutti in casa, c'è un maratoneta che si allena correndo in 27 metri quadri, c'è da impazzire.

Ma qui ci sono i controlli, qui hanno bloccato i voli dalla Cina, che il virus si diffonda qui è altamente improbabile.

Nel dubbio la gente smette di andare al ristorante cinese, e anche dai giapponesi che in Italia sono gestiti dai cinesi, io ci vado e noto è mezzo vuoto anche se è venerdì sera. Avrebbe dovuto trasferirsi un mese fa, ma è ancora lì, forse per il periodo. (Sarà l'ultima volta che entrerò a mangiare in quel locale: recentemente ha riaperto, nella nuova sede, ma devo ancora mangiarci dentro.)

C'è qualche caso, qualcuno a Roma, qualcuno rientrato da trasferta in Cina, uno che è entrato in con qualcun altro. Ma è tutto sotto controllo.

E poi.

Arriva.

Lui.

Il "paziente uno". Il primo paziente che preso il virus in Italia. E in poco tempo, due. Quattro. Sedici. Principalmente in Lombardia.

E' il 21 febbraio, venerdì pomeriggio, e la sensazione, a quel punto, è netta. E' arrivato il "coronavirus". In Italia. E poi a breve in Europa, e poi in tutto il mondo.

I pensieri sono due.
Il primo è cercare di assicurarmi per poter ricevere denaro e lavorare anche durante in un ipotetico contagio.
Il secondo è trovare il modo su come fare i soldi sulla isteria collettiva, al netto di chi purtroppo invece soffrirà o addirittura ci lascerà le penne.

Entrambe le intuizioni sono ciniche, ma razionali e corrette. Non basta l'intuizione, però. Non basta la visione del gioco: ci vuole il piede buono per saper fare il lancio lungo.

Alzai lo sguardo, ed ebbi la visione: mancò il piede.

Comunque, mi immagino come andrà a finire: mi attivo subito per predisporre un servizio di riprese in streaming delle partite per la Benedetto XIV (che al momento, in Serie B, non era previsto). Avevo già immaginato le porte chiuse. Porte chiuse che poi tutti scongiureranno, e rifiuteranno, salvo poi arrendersi all'evidenza del "o così o niente".

Alla sera esco, con alcuni amici: deve raggiungermi mia moglie, all'epoca morosa. Mi telefona: tarderà, è stata tamponata. Per la seconda volta nel giro di pochi mesi. Stavolta niente di grave, solo un piccolo graffio sul paraurti.
La cosa che fa ridere, a un anno di distanza, è diventata abitudine per me farmi tamponare al venerdì, 48 ore prima dei match della Benedetto XIV, per motivi di protocollo FIP.

Andiamo a cena, a mangiare una pizza. Arriva. Arriva la pizza, arriva la Maja. Ceniamo. Sarà il penultimo pasto consumato fuori casa, ma non posso saperlo.

Apro il telefono: la partita di serie di B di basket della Bakery Piacenza è stata rinviata. Scrivono erroneamente "sospesa". Johnson Righeira (sì, lui, quello dei Righeira) commenta la notizia su Instagram con "Azzz...".

Tutto vero: il post è ancora qui https://www.instagram.com/p/B81z4WlIlmT/


Il giorno dopo, si gioca la partita della Benedetto XIV. Si tratta di un anticipo al sabato sera per non accavallarsi con il Carnevale di Cento del giorno dopo.
Pur giocandosi a 45 minuti da Cento, al PalaSavena di San Lazzaro, il pubblico è più o meno lo stesso. E quanto giochi da due stagioni a 80 km A/R da casa, cerco di evitare tutto quello che può andare a ridurre ulteriormente il pubblico di aficionados.

C'è un clima un po' surreale, e non è per il ritorno al sabato sera (che era tradizione fino a metà degli anni '10): c'è la netta percezione che stia avvenendo qualcosa, qualcosa al di fuori del basket, ma ancora non si capirà quanto influirà tutto questo. La partita è un turning point stagionale, la Benedetto XIV vince il match contro Fabriano con un canestro a pochi secondi dalla fine di Yan Moreno: Cento così aggancia la rivale, e in virtù del 2-0 negli scontri diretti la sorpassa e di fatto agguanta la testa del girone.

Sì: abbiamo chiuso con una bella vittoria.


Tra gli addetti ai lavori si parla già di porte chiuse, e ci si chiede se effettivamente ci si vedrà lì, di nuovo tra un paio di settimane. Non sarà così, con molti ci si rivedrà anche 7-8 mesi. Qualcuno non lo vedo da allora.

Finiamo tardi, e a me e ai colleghi non resta che tornare a Cento, dopo aver cercato un paninaro aperto che da mezzanotte in poi sembrava già introvabile. Coprifuoco era ancora un modo dire.
Una birra, una piadina. Questo sarà il mio ultimo pasto fuori casa, per parecchi mesi a venire.

E' appena iniziata domenica 23 febbraio.

Qualche ora di sonno, e ben vestito, sono di nuovo al lavoro: c'è il Carnevale di Cento. Si è discusso sull'annullare la giornata di sfilate o meno, ma alla fine nessuno se l'è sentita. Giusto? Sbagliato?
Se da un lato è giusto parlare di prudenza e buon senso, dall'altra dobbiamo parlare di responsabilità verso turisti e addetti ai lavori.
Onestamente, non so proprio cosa avrei scelto io: ma non devo prendermi la briga di decidere, io ci lavoro, mi vesto e vado.
Tuttavia ormai la faccenda è nazionale, si invoca da più parti la sospensione di tutto, la chiusura di ogni evento fonte di assembramento.

Sbucano le prime mascherine, chirurgiche, indossate da turisti molto timorosi che pensano di proteggere loro stessi, quando in realtà proteggono gli altri. D'altronde, a quella data, è facile immaginare che quelle mascherine fossero il meglio reperibile in commercio.

E' una bella giornata di sole ma non c'è un clima di festa, da casa sono diversi gli insulti che riceviamo sulle pagine Facebook. "Avrete dei morti sulla coscienza". No, non si sono poi registrati contagi avvenuti durante il Carnevale o a seguito di contatti avvenuti in quella giornata. Forse ci sono stati, forse no: di certo il tracciamento nelle prime giornate riusciva ancora spesso a delineare le possibili zone di contagio, e il Carnevale di Cento non fu una di queste.
Sfilano i carri, volano i coriandoli, sul palco del Carnevale sale "la velina russa" Vera Atyushkina (vi ho sbloccato un ricordo, lo so), ma non è una completa giornata di festa.

Comunque, era nell'aria un'ordinanza di Bonaccini, Presidente della Regione Emilia-Romagna, per "chiudere tutto".
Il carnevale, nonostante la splendida giornata di sole, si svolge velocissimo, quasi ad anticipare ogni ordinanza. Che potrebbe anche avere effetto immediato, per quel che ne sappiamo in quel momento.

E poi arriva, l'ordinanza. Tutto chiuso in Emilia-Romagna. Scuole, eventi, aggregamenti. Per almeno 7 giorni. Ma già sappiamo che i giorni dovranno essere almeno 14, se non 21, per avere effetto.
Saranno oltre 70, in realtà, e per le scuole persino di più: l'anno scolastico, per lo meno quello in presenza, si chiuderà qui.
Quindi, il Carnevale di Cento finirà lì, quel 23 febbraio 2020.

Ridendo e scherzando, pensiamo che bisognerebbe passare dai supermercati per fare scorta. E ci giunge voce che qualcuno si sta già attivando in questo senso: chi in maniera ponderata, chi in maniera folle.
Bevo una birra in un bicchiere di plastica, con i colleghi, e torno a casa.

I primi giorni proseguono quasi normali, nel clima del #iononmifermo e nel nome di un distanziamento molto teorico e poco pratico. Le mascherine ancora non esistono. I casi fioccano, uno dopo l'altro. Centinaia, poi migliaia.

Mi capita persino di ammalarmi. Prevalentemente una brutta infiammazione alla gola, ma la tosse e il mal di gola durano solo un giorno. Per il resto stanchezza, spossatezza, sensazioni febbrili. Insomma, ce n'è abbastanza per recarmi dal medico e mettermi in mutua.
Vado dal dottore, stiamo tutti distanti. E' fine febbraio ma le finestre restano aperte. A suo dire, non si tratta di corona virus. A distanza di parecchi mesi, un test sierologico confermerà la sua idea: non era covid19.

No: non era febbre. E forse non c'era nemmeno battito.

Le partite di basket iniziano ad essere rinviate un po' ovunque, così come anche gli eventi sportivi. Non più solo in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. I casi fioccano come funghi in tutta Italia. E in tutta Europa. E' solo l'inizio, nel giro di poche settimane verranno sospesi prima gli interi campionati, e poi annullati.

C'è tempo poi per fare una ultima cena, con alcuni miei amici, il 5 marzo 2020. Con un po' di timore, crescente, con un po' di distanziamento appena accennato. Nel mentre, arrivano le prime bozze di DPCM, dove si parla di province "zone rosse". Alcuni amici si chiedono se riusciranno a tornare a casa.
Questa rimarrà l'ultima cena con loro, per diversi mesi.

E poi pochi giorni dopo , una sera, appare Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio, in TV. Sto ancora lavorando, mentre torno a casa mi fermo a fare il pieno alla macchina.
Da un lato, era necessario: ero in riserva. Dall'altro, fossi riuscito ad aspettare qualche giorno in più, avrei goduto di un costo veramente basso per il diesel. Ma tant'è. Passeranno mesi prima che torni ad avvicinarmi ad una stazione di servizio.

Torno a casa. Conte ha parlato. E' uscito un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, poi amichevolmente noto come DPCM.
E' lockdown. Nazionale. Anche se poi sarò costretto ad andare fisicamente in ufficio ancora per una settimana, prima che venga attivato il cosiddetto "lavoro agile".

La chiameremo tutti "quarantena", erroneamente, perché quel termine sarebbe più indicato per l'isolamento domiciliare. Ma c'è ancora parecchio caos, soprattutto nei nomi. Si parla ancora di "coronavirus", dopo un po' di settimane prenderà piede la parola "covid", diminutivo di covid-19.

E poi il resto lo sapete, è storia recente, anzi, ancora purtroppo presente.

lunedì 15 giugno 2020

Andrà abbastanza bene.


Abbiamo il tramonto sulle distese di grano, le birre da Cucco, le risate alle battute in dialetto di Castoro.
I treni economici con le loro avventure cariche di coincidenze mancate e ritardi annunciati, e i treni veloci con le loro prese elettriche. Riceviamo le notifiche del livescore con scritto "GOOOOOOOL!" per sapere dei risultati anche nelle baite più sperdute, e abbiamo gli streaming piratati di Atdhe e Rojadirecta per vedere il calcio inglese che più ci interessa.
Ci sono le uscite in bicicletta compatibili con l'etilometro, e i lunghi viaggi a GPL con le rustichelle delle nostre autostrade.
Si va ai concerti gratuiti con dei gazebopenguins o chi per loro che ti stagedivingano sulla testa, e gli eventoni in cui paghi volentieri il biglietto per sentire qualcuno che sa davvero suonare come si deve.
Abbiamo chat, messaggi, social, selfie, e tutto quello che serve per condividere emozioni e sensazioni, e il tasto nascondi per cancellare le stronzate di tutti gli altri. C'è il profumo della pioggia in giugno, gli odori della montagna la mattina presto, il vento fresco che odora di alghe che sale dai lidi. E gli aerei low-cost per salutare tutte le europe(e) che conosciamo o che vogliamo (dis)conoscere. Un buon piatto di tortellini, e rotoli e piade per le fami chimiche.
Abbiamo la droga leggere e la droga scrivere, abbiamo ore di filmati su youtube, abbiamo i nasi per sanguinare, per starnutire, per annusare i profumi, per tirare su la menta da fiuto o altro a discrezione dell'utente. Abbiamo le belle persone che fanno delle belle cose, abbiamo delle belle cose che ci fanno conoscere altre persone. Ci sono i portici che raccontano secoli di storia e mesi di idiozie, e palazzi che non hanno paura dei terremoti.
Le nuvole coprono, scoprono e ricoprono orizzonti sempre uguali e sempre diversi, che pare ogni angolo del mondo possa essere complementare con questo spicchio di sotto-Po, visto da dietro i nostri occhiali da sole. E/o da soli.
Finisce un'altra piccola giornata, e se poi si scopasse un po' di più, ci sarebbe anche più poesia.
Ma così, in generale. Dietro la collina.

(Enrico Atti, post su Facebook, 15 giugno 2014)